Questa è una riflessione del tutto personale sulla giustizia. Oggi in Italia (non so cosa avvenga nella maggior parte dei paesi occidentali e in altri paesi nel mondo, forse lo stesso), alla fine di un processo penale ci sono solo due esiti possibili: l’imputato viene dichiarato “colpevole” o “innocente”.

Non è però stato sempre così. Almeno in Italia, fino agli anni ’60 esistevano tre possibili conclusioni: “colpevole”, “innocente”, “innocente per insufficienza di prove”. L’ultimo tipo di giudizio lasciava andare libero l’imputato, ma implicava una specie di condanna morale.[1] Il suo significato era: ci sono dei motivi per ritenerti colpevole ma, non avendo la certezza assoluta della tua colpevolezza, vieni assolto.

In realtà quest’ultima condizione si applica oggi anche in molti casi in cui l’imputato viene dichiarato innocente: la colpevolezza dovrebbe, almeno sulla carta, venir decisa solo quando esistono prove inconfutabili della colpevolezza dell’imputato, mentre in presenza di qualche ragionevole dubbio questi dovrebbe essere dichiarato innocente. Questo per evitare clamorosi errori giudiziari, secondo il principio che è preferibile un colpevole in circolazione che un innocente in carcere.

La possibilità di due soli tipi di giudizio può portare però a esiti paradossali: talvolta in presenza di prove circostanziali significative, anche se non decisive, l’imputato viene condannato, talaltra anche in presenza di prove che sarebbero a favore della colpevolezza, l’imputato viene assolto. La scelta invece dell’assoluzione “per insufficienza di prove” è una via di mezzo che potrebbe venire applicata facilmente quando esistono seri indizi di colpevolezza, accompagnati però da dubbi significativi.

Quale sarebbe il vantaggio della soluzione a tre esiti? Che nei casi discutibili, quelli che spesso dividono l’opinione pubblica tra colpevolisti e innocentisti, l’imputato potrebbe venire sì assolto, ma con un marchio che gli impedirebbe di dichiararsi vittima di un errore giudiziario. Al contrario, l’innocente godrebbe di un’assoluzione piena, una reale certificazione che non ha commesso il fatto di cui è stato accusato. E questo probabilmente eviterebbe la situazione paradossale di imputati condannati in primo grado e poi assolti in appello, o viceversa, di persone che poi gridano all’errore giudiziario. Tutto questo potrebbe anche incidere sugli eventuali risarcimenti da parte dello Stato in caso di errori giudiziari.

[1] Tanto che consentiva all’imputato il ricorso in appello per ottenere l’innocenza piena, per non aver commesso il fatto.

Nessun commento

Lascia un commento